Casa Bettola chiama…

Testo tratto dall’intervento di Simon Armini di Casa Bettola all’incontro a Rimini sugli Spazi Sociali e produzione del comune

L’incontro tra spazi sociali rappresenta un’occasione di scambio tra realtà che si riconoscono in uno spazio comune, che va oltre la propria esperienza e il proprio contesto, ma che contemporaneamente sanno riconoscere e valorizzare le loro diversità.

Per portare il nostro contributo a quest’incontro abbiamo pensato di condividere tre nodi che hanno caratterizzato, e continuano a caratterizzare, la costruzione della nostra esperienza.

Per primo, le tematiche intorno alle quali abbiamo costruito il progetto; dal diritto alla casa al diritto all’abitare, attraverso la difesa dei beni comuni verso l’idea della città come bene comune; e come questi passaggi ci hanno portato a riflettere su come superare la separazione tra soggetti impegnati intorno a tematiche diverse, che nonostante siano strettamente collegati sono affrontate in modo sempre più frammentale. Quindi la sfida di cercare una ricomposizione tra gruppi, associazioni e comitati senza per questo mirare alla fusione, ma all’incontro e lo scambio.

Secondo, il tentativo di andare oltre la gestione privata o pubblica, ed immaginarsi un’alternativa che sia comune, e come cerchiamo di realizzare quest’idea tramite l’autogestione, che si rispecchia nei rapporti con il quartiere, la città e le istituzioni.

Terzo, il modo in cui abbiamo cercato di costruire la nostra esperienza tramite l’autorecupero, per restituire uno spazio pubblico abbandonato e inutilizzato alla città, con un’identità e una funzione collettiva, di partecipazione e condivisione.

Uno spazio per unire senza unificare

Spesso è difficile definire il momento esatto in cui inizia un’esperienza o quando nasce uno spazio; perché non è un evento ma un percorso, o più percorsi, che si costruiscono con il tempo.

In giugno 2009 abbiamo occupato la casa cantoniera, e quindi potremo affermare che Casa Bettola nasce in quel momento, ma in realtà la nostra esperienza parte da prima, con un percorso di cinque anni di lotta per il diritto alla casa.

Questi cinque anni di sportello per il diritto alla casa, blocchi di sfratti, presidi e occupazioni, ci hanno portato a conoscere soggetti che affrontano altre tematiche che s’intrecciano con quella della casa. Abbiamo colto come il diritto alla casa in senso stretto, non può rimanere una questione isolata, perché è collegata al modo in cui la città è disegnata e costruita, al modello di sviluppo della società che impregna diversi ambiti della nostra vita.

Queste consapevolezze ci hanno portato a stringere rapporti con altri gruppi per affrontare il diritto all’abitare in senso più ampio: dalla casa, al verde, alla mobilità…mantenendo comunque le nostre specificità, in modo tale di arricchire e rafforzare l’intervento di uno e l’altro senza omologarci ma mantenendo diversi linguaggi e diverse pratiche.

In questi ultimi anni la nozione di beni comuni è stata sempre più diffusa, e anche per noi è stata un’occasione per cercare di superare le separazioni di una cittadinanza e una sinistra politica sempre più atomizzata: per riannodare politiche sociali e politiche ambientali. E proprio intorno alla difesa dei beni comuni che ci siamo trovati con altri gruppi e associazioni per sviluppare un progetto comune per la casa cantoniera occupata.

Ecco, questo è un nodo per noi importante; come stiamo cercando di creare uno spazio, non solo fisico ma anche politico e di condivisione, dove il diritto all’abitare si può incontrare con i diritti legati al lavoro e il reddito, dove chi affronta le tematiche della scuola si può incontrare con chi affronta le tematiche ambientali, dove chi s’impegna per i diritti di tutti i migranti può confrontarsi con chi promuove una produzione e un consumo etico e sostenibile. Dove diverse tematiche che sono strettamente collegate ma che appaiono sempre più divise, possono essere riunite, e gruppi che sono impegnati in questi campi possono incontrarsi, nello scambio e la collaborazione, senza per questo cercare di diventare una cosa unica, senza omologare le nostre idee e le nostre pratiche – ma insieme valorizzare le nostre diversità per cercare una città bene comune.

Uno spazio comune – oltre il pubblico e il privato

Per andare al secondo nodo, quello della gestione dello spazio e i rapporti con il quartiere, la città e le istituzioni, possiamo partire dalle interpretazioni che le persone hanno dello spazio quando lo attraversano, perché spesso hanno idee diverse di che cosa sia; qualcuno chiede se la casa è di proprietà pubblica, qualcuno chiede se è di proprietà privata: la nostra risposta è che non è né uno né l’altro ma che è comune.

Che cosa intendiamo? Sul catasto la casa risulta della Provincia di Reggio Emilia, quindi di proprietà pubblica: ma che cosa vuol dire pubblico se uno spazio è abbandonato e inutilizzato per tanti anni, in che modo questo patrimonio può essere utile per la cittadinanza se le sue porte rimangono chiuse?

Noi pensiamo che lasciare una casa vuota nel momento in cui c’è bisogno di spazi residenziali, sociali e culturali, è una modalità privata di usare un patrimonio pubblico.

Il pubblico potenzialmente è di tutti, ma tante volte rimane di nessuno, perché non è utilizzato o è utilizzato in maniera passiva. Lo spazio per noi diventa comune dal momento in cui è vissuto di persone che lo rendono vivo, quando persone agiscono lo spazio e danno un’identità e una funzione alla casa.

Se facciamo l’esercizio di pensiero che Casa Bettola fosse un progetto della Provincia – sarebbe la stessa cosa, avrebbe lo stesso valore? Se le iniziative proposte all’interno della casa sarebbero le stesse, ma promosse dall’ente pubblico avrebbero lo stesso significato? In questa valutazione penso che non possiamo prescindere dal valore dell’autogestione, perché è un vero laboratorio di democrazia e partecipazione che non può essere sostituito da progetti con gli stessi obiettivi promossi dalle istituzioni.

Voglio anche sottolineare che Casa Bettola non vuole essere un rifugio, non vuole cercare di stare fuori, ma viceversa stare dentro le contraddizioni della città e le condizioni della società, per elaborare alternative, e immaginare una società diversa, quindi stare anche dentro la crisi per trovare altre vie d’uscita dell’austerity e i tagli trasversali, per difendere i nostri diritti e costruire il nostro futuro.

Infatti, per realizzare le attività di Casa Bettola siamo partiti da noi stessi, i nostri bisogni e i nostri desideri, ma anche i bisogni e i desideri che abbiamo incontrato nei nostri sportelli e nelle nostre inchieste sul territorio.

Lo spazio incontro vuole essere uno spazio aperto e comune, un luogo d’incontro e scambio, costruito e gestito da famiglie, dove i nostri figli possono incontrarsi con altri bambini di diverse età, e noi genitori ci possiamo confrontare, fare rete e costruire relazioni solidali e di reciprocità.

La scuola d’italiano è aperta per donne migranti, che hanno la possibilità di lasciare i figli nello spazio incontro mentre studiano. L’idea è quello di andare oltre il semplice studio della lingua italiana, per cercare anche uno scambio di esperienze e conoscenze, diventare risorsa uno per l’altro, e attraversare confini che tante volte sono costruite tra persone di diverse provenienze.

Il gruppo d’acquisto solidale ha come scopo di diffondere la produzione del biologico naturale e il consumo etico e solidale, mettendosi insieme per cercare di riprendere la produzione, la distribuzione, il consumo – ovvero l’economia – nelle nostre mani.

L’orto urbano è un’iniziativa per sollecitare l’autogestione di spazi pubblici e il recupero di luoghi urbani abbandonati, dove poter partecipare con consigli, semi, piante e manodopera, ricevendo in cambio oltre i prodotti dell’orto, un’occasione di scambio e relazione.

L’officina di Casa Bettola è uno spazio dove organizzare incontri, dibattiti e assemblee; dove promuovere mostre, concerti e spettacoli. Un’officina d’idee, pratiche e progetti.

Autorecupero come critica e proposta

Si potrebbe pensare all’autorecupero come emblema per Casa Bettola, perché riappropriarsi di uno spazio, che per anni è stato abbandonato e inutilizzato, rappresenta nello stesso tempo una voce critica verso il modello di società in cui siamo immersi e un tentativo di elaborare un’alternativa; è nello stesso tempo una critica verso la speculazione e la rendita e un esempio concreto di come poter concepire e costruire la città in modo diverso.

Oggi, Reggio Emilia è una città dove sempre più gente perde o rischia di perdere la casa nello stesso tempo che ci sono migliaia di case sfitte, dove in un momento di crisi in cui ci sarebbe bisogno di una politica responsabile sull’abitare, interi quartieri di edilizia pubblica vengono abbandonati per anni per poi in gran parte essere privatizzati senza che si costruiscono nuove case pubbliche. Una città dove sono stati varati Piani regolatori a favore di un’espansione edilizia sproporzionata, che ha aperto la porta alla malavita e lo sfruttamento della manodopera irregolare. Una città che sempre più tende ad essere costruita per essere vista da fuori, invece di essere una città vissuta da dentro, per cercare di essere più attrattivo per investimenti.

E’ in questo contesto che proponiamo l’autorecupero; per riutilizzare l’esistente invece di consumare altro suolo e gettare altro cemento; per rispondere alle esigenze degli abitanti, dei quartieri e la città invece di accontentare le imprese e le organizzazioni mafiose, per creare un luogo di scambio invece di costruire un altro centro commerciale.

Quindi dare nuova vita a uno spazio abbandonato, per non lasciare all’abbandono le persone, i quartieri, la città, il territorio, per valorizzare le risorse che insieme abbiamo e le risorse che possiamo essere l’uno per l’altro.

COMPAGNONI – APPUNTI DALLA CITTA’ COMUNE

Conferenza stampa davanti al comune con i cocci delle case demolite di via Compagnoni

Proprio in questi giorni è previsto il definitivo svuotamento delle case popolari di Via Compagnoni, l’ultimo stralcio che deve essere abbattuto per il compimento del progetto che hanno il coraggio di chiamare “riqualificazione” ha i giorni contati.

In un paesaggio dall’aria post-nucleare, fra palazzi mezzi demoliti e cortili lasciati ormai all’abbandono, vivono ancora una decina di famiglie assegnatarie e altrettante occupanti. Agli assegnatari è stato promessa una nuova sistemazione entro fine marzo ma nel frattempo li si lascia ormai da mesi a vivere in condizioni inaccettabili, in case fredde perché sventrate, in mezzo ai rottami; degli occupanti si finge di ignorare la presenza.

Il piano è piuttosto chiaro: uscito l’ultimo fra gli assegnatari regolari verranno chiusi luce, acqua e gas in modo che le famiglie rimaste, i famigerati “abusivi”, siano costrette ad andarsene senza procurare all’amministrazione l’imbarazzo di dover mettere di mezzo polizia e carabinieri, senza figuracce come quella del 2008, quando mandarono più di cento poliziotti e chiusero tutta la via per sgomberare un palazzo abitato da 8 adulti e sei bambini in un quartiere dove per dieci anni si sono lasciate 130 case pubbliche vuote.

Oggi più che mai la figura dello storico quartiere Compagnoni è simbolica e rappresentativa. Dopo dieci anni di rielaborazioni, il progetto, che prevede l’abbattimento delle case pubbliche e la ricostruzione per la maggior parte di abitazioni private e spazi commerciali, volge al suo termine proprio nel momento in cui l’emergenza abitativa, causa crisi, disoccupazione e speculazione, sta raggiungendo livelli molto preoccupanti anche nella nostra città. Proprio ora, mentre le graduatorie per le case popolari scoppiano, mentre gli sfratti per morosità lievitano ed i pignoramenti sono all’ordine del giorno, un altro quartiere popolare viene distrutto. Gli abitanti del quartiere, quelli regolari, vengono trattati come cittadini di serie D e gli si iniziano addirittura a demolire le case addosso mentre gli occupanti vengono ignorati ed entrano in pieno nello status di invisibili.

Compagnoni è un esempio perfetto per descrivere la modalità d’azione e le priorità politiche di chi amministra questa città e, probabilmente, dei loro numerosi amici:

1 – L’abbattimento di case pubbliche e la costruzione al loro posto di edifici privati la dice lunga su quali siano gli interessi che hanno la priorità sul territorio: fra il diritto alla casa e la speculazione edilizia, la seconda la fa decisamente da padrone. La domanda che sorge è questa: perché in una città con le graduatorie di attesa per una casa popolare che superano i mille nuclei famigliari e diecimila case private vuote, si alienano case pubbliche e se ne costruiscono altre private?

2 – Gli occupanti vengono ignorati esattamente come viene ignorata l’emergenza abitativa in atto. I “nostri” amministratori forse pensano che i problemi, ignorandoli, si risolvano da soli. Ci dispiace dover dire loro che non è così: gli occupanti di compagnoni sono solo una minuscola parte dei senza casa reggiani e non scompariranno all’improvviso solo perchè si chiudono loro l’acqua e la luca così come non scompariranno tutti gli altri che, anzi, aumenteranno vertiginosamente non essendoci in atto nè in programma alcuna politica abitativa seria.

3 – Il collettivo sottotetto denuncia da 5 anni l’imminenza di una crisi abitativa senza precedenti, propone progetti di autorecupero e idee per evitare il disastro. Il collettivo, così come chiunque altro abbia osato mettere in discussione le politiche edilizie di questo territorio, non solo è sempre stato ignorato ma addirittura è stato reso protagonista di una campagna disinformativa atta a costruire un’immagine criminale e distorta del lavoro del collettivo stesso.

Riassumendo si può dire che dall’analisi della questione Compagnoni emerge un quadro fedele della gestione privata e supina alle esigenze della rendita che gli amministratori di questa città promuovono e attuano sul territorio comune.

Come sottotetto ci siamo sempre occupati soprattutto di diritto alla casa, inteso però in maniera più ampia come diritto all’abitare, cioè a vivere in un territorio ben gestito da persone attente alle esigenze dei cittadini, sia dal punto di vista dei diritti che di tutti i fattori che contribuiscono ad alzare il livello di qualità della vita.

La questione della gestione del territorio non riguarda solo chi si vede negato l’accesso all’abitazione in senso stretto ma coinvolge tutti coloro che vivono in questa città: se gli amministratori decidono di asservire lo spazio comune alla rendita privata ci perdono tutti. I milioni di metri cubi di cemento calati dall’alto negli ultimi dieci anni hanno tolto spazio a tutti gli abitanti, le case costruite e lasciate vuote danneggiano tutti i cittadini sia dal punto di vista ambientale che economico.

La battaglia per la difesa del territorio comune contro la rendita privata deve essere di tutti, ed è la  battaglia di chi non ha una casa , di chi non vuole respirare i veleni di un inceneritore, di chi non vuole le centrali nucleari, di chi vorrebbe più verde e meno cemento, di chi vuole che l’acqua sia pubblica, di chi lavora per un’urbanistica diversa, di chi con il proprio lavoro autorecupera stabili abbandonati restituendoli alla comunità e di chi cerca di costruire una città accogliente e aperta.

POTRANNO IGNORARCI TUTTI?

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Altri colpi al cuore dell’edilizia popolare

Martedì 8 febbraio, ennesimo brusco risveglio per gli abitanti di via
Compagnoni.

All’alba cominciano i colpi di mazzetta che rimbombano per le scale dei
palazzi ancora in parte abitati. Materiali di ogni tipo volano dai balconi
senza che nessuna norma di sicurezza venga rispettata. Le case vengono
sventrare senza che ci si curi di chi l’inverno deve finire di trascorrerlo
proprio a fianco degli appartamenti distrutti e lasciati aperti, senza nè porte
nè finestre, in balìa del gelo.

Compagnoni è una ferita aperta ed ACER e amministrazione comunale, per mano
della ditta Fontanili che per far soldi non guarda in faccia a nessuno da
generazioni, gettano sale.
Compagnoni è una ferita che brucia perchè lì si sta finendo di consumare uno
dei più grandi affronti all’edilizia popolare ed alla dignità degli abitanti.
Dall’alto si è deciso di demolire il quartiere chiamando riqualificazione ciò
che in realtà doveva essere chiamata privatizzazione speculativa, gli abitanti
vengono spostati come pacchi postali e non si ha nemmeno la decenza di
aspettare che tutti se ne siano andati per cominciare a distruggere.

La cosa in realtà va avanti da anni, da quando l’assessore Colzi cominciò a
far devastare gli appartamenti tenuti sfitti per anni per evitare che qualcuno
li occupasse(dopo aver dichiarato di tenerli vuoti per le emergenze…), ed è
l’unica risposta che è stata data a chi denunciava l’emergenza abitativa e si
opponeva alla svendita del patrimonio pubblico pagato con le tasse degli
operai.

Certo, come risposta è molto chiara, come è chiaro l’atteggiamento che
l’amministrazione sta continuando a tenere verso chi ha problemi abitativi,
siano essi occupanti “abusivi” o regolari assegnatari.
Il messaggio è sempre lo stesso: sulla pelle dei più poveri si può fare tutto,
anche demolirgli le case addosso.

Vedi il servizio sulle demolizioni in Via Compagnoni su TG Reggio del 9 e 10 febbraio: